L’abolizione dell’umano

È bello svegliarsi una mattina e apprendere dai giornali e dai telegiornali che è stato abolito l’uomo, questo pelo superfluo dell’universo. Tu stai lì a berti la tua tazza di caffè e vieni a sapere che non c’è più bisogno dell’uomo per far nascere l’uomo. Basta una cellula, qualche arnese di laboratorio, neanche un seme, di un topo e il gioco è fatto. Topi e maiali sostituiscono ormai gli uomini e i loro organi, a riprova dell’antica saggezza popolare che attribuiva, con una premonizione prodigiosa, alla versione femminile delle due bestie l’epiteto negativo per la donna che tradisce l’uomo. Il complice del tradimento genetico, il paraninfo per l’inatteso adulterio, è lo scienziato. Che si sta adoperando scientemente per ridurre l’uomo a panda o koala, animale spaventato e marginale in via d’estinzione.

Non so se facciamo bene a fingere di non aver capito certe notizie, a esorcizzarle con l’ironia o a ritenerle puro sensazionalismo dei giornali, comunque ipotesi azzardate e avveniristiche che in fondo non ci riguardano. Però ogni tanto, se usciamo dal guscio idiota dell’ego e ragioniamo con gli occhi della specie, vien voglia di lasciarsi morire. Fu abolito Dio, e con lui l’immortalità dell’anima, con decreto regio di Sua Maestà la Scienza, controfirmato dalla Regina Madre, la Filosofia. Ora viene abolito l’uomo e con lui la continuità della specie. Frattaglie infime di topo bastano per riprodurci. Ma non solo: viene abolito pure il sesso, che era rimasto, da Freud ai viados, l’ultimo rifugio vitale e l’ultimo motore animale, oltre le necessità corporali; per figliare non c’è bisogno nemmeno di spermatozoi, basta un ciccio qualsiasi, pizzicato da una bestia qualunque, anche disprezzata. Certo, gli ottimisti terreni potranno pure dire che così almeno la crisi di natalità in Occidente è scongiurata; e gli ottimisti celesti potranno aggiungere che se una cellula di un infimo animale può riprodurre una vita umanoide, è la prova che nell’infinitamente piccolo c’è già in nuce l’infinitamente grande, ovvero la perfetta corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo di antica sapienza è confermata. Una formica ha in sé tutto l’universo, come già pensava la saggezza Zen. Sarà una formica a salvarci, diceva Pound.

Sarà un retrivo corporativismo, in senso letterale, ma fa male vedere l’uomo reso obsoleto e superfluo sin nella sua corporeità. Resiste ancora la donna, giacché “mater semper certa est” e acquista nuovo senso il ratto delle sabine, che non allude più al rapimento delle donne ma all’ingravidamento ad opera del ratto, nome d’arte un po’ boccioniano del topo, evocante la velocità.

Continuiamo a scherzare per non disperarci. E per non chiederci se l’avventura umana possa davvero finire così, per sete di potenza e di sperimentazione. Da millenni inventiamo mezzi per distruggere; ma stavolta ne abbiamo inventato uno che colpisce alla radice l’intero genere umano su tutta la faccia della terra. La speranza resta nella sua inefficacia, nella sua difficile globalità, l’arduo passaggio dalla teoria sperimentale alla prassi, e infine, extrema spes, la saggia ignoranza del genere umano e il sano ribollire degli istinti.

Viene da immaginare un futuro in cui l’umanità si dividerà in due specie: i mutanti ed i restanti, un bivio radicale in cui si separiamo per andare ad abitare mondi diversi. Umani e postumani. Terrestri e marziani. La scienza non risolve la doppia follìa della mortalità e dell’immortalità. Promette solo di modificarci e di prolungare la vita.

Il post-uomo che prospetta la genetica è mezzo dio e mezzo moscerino; vive da dio e muore da moscerino. O il contrario. Perde pezzi d’umanità d’ambo i lati. Nessuno sa decidere, alla fine, come comportarsi col genoma. Siamo mosche cieche, genitori di moscerini. Lanciamo in aria la monetina e poi speriamo che dal cielo non cada la medesima moneta ma un dardo di luce. Tutto questo non ha soluzione. O meglio si risolve con un biscotto in una tazza di latte, per predisporci con un rito mattutino alle rassicuranti distrazioni della vita. Sono le piccole consuetudini a salvarci dalle grandi scelte. Anche in questo siamo moscerini appena più attrezzati.

Poi vedo in penombra il corpo bambino di Rudi che dorme e mi chiedo: dove finirà questo corpo, questa vita ancora fresca e sognante, in quale imbuto del mondo si caccerà; ci sarà un paradiso dei corpi dove quest’immagine che sprigiona luce sarà al riparo del tempo? E’ possibile che di questo volto lucente, sognante angeli e angelico esso stesso, resterà solo una pallida e stinta memoria negli occhi di qualcuno, fugace altrettanto? Sarebbe uno spreco inaudito di grazia. Ci sarà un luogo oltre i luoghi dove ci ritroveremo lui e io? La vita si inarca tra ritorni e amnesie. Il genoma stravolge la vita, ma non ne risolve il mistero.

MV, Il segreto del viandante (Mondadori, 2003)

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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