Non confondiamo il Buddismo con le buddanate (Il Giornale, 18/06/2012)
Il Buddismo è la «religione» più amata, o quantomeno più tollerata, dall’ateismo pratico d’occidente e dalle sue vestali laiche. Va forte nei media e nei supermarket della fede, spopola a Hollywood, a differenza del cristianesimo. Le conversioni delle star a Budda non si contano: da Richard Gere a Oliver Stone, da Sharon Stone a Sting, da Keanu Reeves che interpretò Budda nel kolossal di Bernardo Bertolucci a Tiger Woods e Steven Seagal, dai cantanti Patty Smith a Leonard Cohen, fino a Roberto Baggio a non pochi sessantottini in vena mistica, anche Sabina Guzzanti. Alla causa buddista si avvicinano in tanti, perfino Dacia Maraini, forse in ricordo di suo padre Fosco, e vanno forte gli ingegneri guru sul web coi loro corsi di meditazione buddista. Ma la consacrazione più eclatante del buddismo è la conversione di Lisa, la figlia pensante di Homer Simpson: quando arrivano pure i cartoons, è fatta, il buddismo entra nel canone occidentale. Il Dalai Lama piace in Occidente, è una specie di pop star accolto nelle istituzioni e in tv. E tuttavia in Tibet le persecuzioni cinesi continuano, i buddisti continuano a darsi fuoco, la repressione dell’antica anima religiosa prosegue come sotto il regime di Mao e poche e sfuocate sono le reazioni.
Il Buddismo ha un’aura di religione dolce, innocua e light. Esprime festosa e colorita mansuetudine e spiritualità da nirvana, leggera e nutriente. Contro «quest’aura di santità inscalfibile» del Buddismo giunge ora un libro di Roberto Del Bosco, che non ha qualifiche particolari per occuparsi del tema ma che viene pubblicato dalla casa editrice ipercattolica Fede & Cultura di Verona (Contro il buddismo. Il volto oscuro di una dottrina arcana). Ma il libro è interessante perché dà corpo a un crescente malumore del mondo cattolico più legato al tradizionalismo davanti a questa invasione pacifica di campo del buddismo in occidente. Del Bosco denuncia il buddismo come una dottrina della distruzione e del nulla infernale, ben accolta nel politicamente corretto, ma istigatrice di violenza, di perversioni sessuali nel nome del Tantra, di stupri e coprofilia rituali, pedofilia e suicidi, sacrifici umani e perfino massacri. Coglie spunti sparsi e assai eterogenei: per esempio il fatto che il primo test atomico indiano voluto da Indira Gandhi si chiamasse «Budda ha sorriso». Chiama in causa le edizioni Adelphi che veicolano in Italia libri di ispirazione buddista, e sottolinea gli intrecci del buddismo con il nazismo, l’estrema destra, fino a parlare di fasciobuddismo. E su questi temi getta o rilancia ombre nere su grandi studiosi del buddismo e dell’oriente come Giuseppe Tucci, Pio Filippani Ronconi e lo stesso Julius Evola. Ma allo stesso tempo si insinua lo zampino della solita Cia per sostenere il buddismo e si ricorda che il Dalai Lama si sia una volta definito marxista. La foga antibuddista porta Del Bosco perfino a prendere le parti dei loro persecutori cinesi e maocomunisti.
Ma le pagine più discutibili riguardano le responsabilità buddiste nei massacri e nelle guerre, Vietnam in testa, lo strascico mondiale del ’68, fino allo Sri Lanka. Fino alla tesi un po’ forzata che i bonzi buddisti cerchino il martirio per propaganda: sarebbe facile e altrettanto assurdo applicare la stessa tesi ai martiri cristiani. Ed è pericoloso per un cristiano attribuire alla religione le nefandezze e i fanatismi di alcuni suoi seguaci. Fino al responso definitivo di condanna: «C’è un potenziale apocalittico inarrestabile dietro al buddismo tantrico… il mondo che vuole Budda è molto simile all’inferno». Comunque la si valuti, la lettura di Contro il buddismo è originale e in controtendenza e soprattutto riaccende un po’ di spirito critico sui fenomeni religiosi ridotti a mode. Dopo decenni di terrore ad opera del fanatismo islamico, qui viene indicato in Budda il nuovo nemico per l’Occidente. Considerando la potenza crescente di Cina e India, e il rischio occidentale di soccombere a loro, c’è da aspettarsi che spunti un’Oriana Fallaci che suoni la sveglia per una crociata antibuddista?
Gli dà manforte il quindicinale «cattolico antimodernista» Sì sì no no che nel suo ultimo numero attacca uno dei guru del nostro tempo, Raimon Pannikar, filosofo morto due anni fa e ispiratore delle giornate interreligiose di Assisi, criticando il suo catto-buddismo (più elementi di induismo). In realtà il sincretismo di Pannikar, prima che religioso e culturale, è biografico e genealogico, perché era figlio di una cattolica spagnola e di un indiano hindu. La sua opera completa è ora in via di pubblicazione dall’editrice cattolica Jaca Book (il suo primo tomo filosofico-teologico è Il ritmo dell’essere). Perfino l’esortazione saggia del Dalai Lama rivolta agli occidentali di non abbandonare la propria religione per convertirsi al buddismo – «cambiare religione causa sofferenza», e spesso nasce da «curiosità superficiale» – viene letta dall’autore di Fede & Cultura al contrario, come «uno stratagemma di un grande piano di possessione». Non mi pare che il buddismo preveda la missione di convertire «gli infedeli». L’appello del Dalai Lama ci sembra invece sensato per reagire al supermarket delle religioni e al tentativo di usare il buddismo come una specie di dieta e di tè verde, di salutismo spirituale e benessere psico-termale.
Ma il buddismo fesso d’Occidente, venuto dal cinema, dai consumi e dal vuoto, non può oscurare e demolire la grande tradizione buddista che merita attenzione e rispetto. Né si può onestamente negare che in un Occidente in crisi, annegato nell’io e nei consumi, depresso e tossicodipendente, il buddismo sia concepito da molti disorientati come una mezza ancora di salvezza e una risposta più sana rispetto alle ideologie o alla psicanalisi. Si tratta insomma di distinguere tra chi lascia la religione cristiana per il buddismo, che ci sembrano in verità assai pochi, e chi invece si aggrappa al buddismo per risalire la china del nichilismo. Perché il buddismo non toglie fedeli alla Chiesa, ma utenti alla cinica società della tecnica e del mercato. Si tratta di distinguere tra buddismo e buddanate.