L’Italia senza divorzio? Bella, ma oggi non funzionerebbe (Il Giornale, 13/05/2014)
«Mi alzerò presto, mi farò la barba e andrò a dire di sì, spensieratamente, alla distruzione della famiglia», così l’apocalittico Guido Ceronetti annunciò il voto a favore del divorzio. Ora che da quel referendum sono passati quarant’anni, cioè la durata media di un matrimonio indissolubile, si può tentare un bilancio fuori da ogni canone e ogni pistolotto celebrativo.
Il referendum del 1974 sancì l’avvento della secolarizzazione e il progressismo diventò l’unità di misura: il discrimine non fu più tra giusto o sbagliato, costante o infedele, ma tra evoluto o arretrato, libero o coatto. Dopo venne l’aborto. Furono sconfitti la Chiesa e il suo braccio secolare, la Dc, che fu trascinata un po’ recalcitrante nella battaglia antidivorzista, insieme alla destra missina. Sul fronte opposto anche il Partito comunista fu trascinato un po’ recalcitrante nella battaglia divorzista, e non solo per ragioni di compromesso storico (il caso Allende in Cile era fresco), ma per indole conservatrice e puritana. Vinse invece il fronte laico, da Pannella ai socialisti ai liberali, vinse il ’68, vinse la nuova borghesia. Il Pci vi si accodò. Di quella battaglia meritano di essere ricordate le eccezioni. Per esempio a destra Indro Montanelli fu da laico liberale a favore del divorzio. E a sinistra Pasolini l’antimoderno denunciò nel divorzio l’applicazione del consumismo ai costumi, il trionfo della dimensione irreligiosa del neocapitalismo, l’avvento dell’edonismo americano. Anche tra i neofascisti vi fu una frangia radicale e anticlericale che non condivise la scelta di Almirante di schierare l’Msi contro il divorzio. Una scelta politica, da partito d’ordine e possibile alleato della Dc di Fanfani, spezzando l’isolamento per il risorto Arco costituzionale, ma per indole e biografia Almirante non era contrario al divorzio. I catto-progressisti si schierarono a favore del divorzio; come notò Augusto Del Noce, essi preferivano unirsi ai progressisti non cattolici piuttosto che ai cattolici non progressisti. Il progresso era il loro punto fermo e il cattolicesimo la variabile secondaria. Il divorzio vinse nettamente, ma il fronte antidivorzista prevalse nel sud, senza le isole, nel Veneto e nel Trentino Alto Adige, dove la Dc, la Chiesa e la Controriforma erano più forti.
Tentando un bilancio oggettivo si può dire che col divorzio fece un passo avanti l’individuo e un passo indietro la famiglia. O per dir meglio e a rovescio, il divorzio vinse perché erano cresciute la centralità dell’individuo e l’autonomia femminile rispetto alla centralità della famiglia e al predominio maschile. Per superare la contraddizione tra nozze sacre e indissolubili e matrimonio civile e revocabile, una soluzione c’era: sciogliere il doppio regime. Ossia divorzio tra Chiesa e Stato, il matrimonio religioso resta indissolubile e chi non è d’accordo può scegliere il matrimonio civile. Si sarebbe rotto il patto concordatario e si sarebbe separata la sfera canonica da quella civile; un’ipotesi che non sarebbe dispiaciuta nemmeno ai più laici. Pasolini, all’epoca, denunciò che la Chiesa non ebbe il coraggio di passare all’opposizione rispetto al mondo. In questo modo, però, la Chiesa avrebbe scelto il destino glorioso di ridursi a minoranza ostile. Una scelta nobilmente suicida, decisamente più coerente sul piano dei principi ma non migliore ai fini della missione pastorale rispetto alla scelta ingloriosa che fece, di assecondare i tempi per non restarne fuori (e non perdere i benefit temporali). Chi difendeva il matrimonio sacro, la famiglia e la tradizione era posto in una condizione tragica: o cedere allo spirito dei tempi o trincerarsi nello spirito fuori dal tempo, a dispetto della realtà, certi della sconfitta. Un aut aut senza scampo. Per un cattolico è un dramma separare la Chiesa dal popolo, la vox populi dalla vox dei, la fede dal comune sentire.
Il divorzio poggia su un’altra visione della vita: il destino è revocabile, è possibile vivere più vite in una, la rinuncia non innalza ma impoverisce, la vita del singolo vale più della vita insieme.
In un bilancio onesto di questi quarant’anni si devono evidenziare sia i progressi che i regressi provocati dal divorzio, le nuove felicità e le nuove infelicità al posto di simmetriche infelicità e felicità dell’età precedente; la conquista della libertà, dell’autonomia e dell’indipendenza a prezzo della fedeltà, della comunità e della dedizione alla famiglia, lo sfaldarsi dell’intreccio tra diritti e doveri e il sorgere del nesso tra diritti e piaceri (i doveri li sancisce il giudice). Per non dire dei nuovi drammi dei separati e dei loro figli, le nuove povertà dei divorziati.
Il progressista dirà che non c’è paragone, si sta meglio oggi. Il reazionario dirà che non c’è paragone, era meglio ieri. Il conservatore che ama la tradizione ma dentro la realtà, dirà che il mondo cambia e non sempre in meglio o sempre in peggio, ogni cambiamento comporta perdite e vantaggi.
All’epoca, se avessi avuto l’età, avrei votato contro il divorzio e oggi non ne sarei pentito, nonostante tutto. Ma reputo saggio, umano e realistico che la Chiesa accolga i divorziati. Un conto è condannare il divorzio, un altro è dannare i divorziati. In definitiva, se paragoniamo la vita prima e dopo il divorzio dobbiamo ammettere due cose contrastanti: i legami di prima erano più saldi e migliori, ma oggi non li reggeremmo. Dire il contrario è da ipocriti o da invasati. Però era bella la famiglia di una volta, bella e irripetibile…