Se i popoli reclamano la difesa dell’identità
Ma c’è un filo rosso, una chiave culturale, nella tendenza prevalente degli elettori a bocciare la sinistra e a preferire leader e partiti di centro-destra, dai moderati e popolari, dai conservatori ai nazionalisti? Dopo le democrazie del nord Europa anche in Spagna, in Grecia e in Italia la tendenza si è confermata, e in Francia si profila un risultato analogo. Sono solo fattori locali e occasionali o legati ai singoli leader- in Italia il fattore Meloni o in negativo il fattore Schlein – oppure c’è qualcosa di più strutturale, più profondo? Tante ragioni locali e contingenti s’intrecciano ma un fattore ci sembra accomunarli: è un voto che reclama più Spagna, più Grecia, più Italia. Insomma più “noi”. O se preferite la formulazione inversa, i cittadini europei soffrono sempre più le forze politiche che sono sempre e sistematicamente dalla parte degli estranei, dei lontani, degli altri, rispetto ai nostrani, ai vicini, ai connazionali. Uno schema che si ripete in ogni contesto, perfino in quello storico: prevale l’autodenigrazione nazionale, la vergogna per la propria civiltà, la negazione del proprio passato. Fino al caso estremo del governo Sanchez che addirittura ha riesumato i cadaveri di José Antonio Primo de Rivera e dei falangisti, morti più di ottant’anni fa, per cacciarli dai cimiteri che accoglievano i caduti di entrambi le parti della Guerra civile spagnola. Sono piccole ma squallide spie simboliche di un odio perdurante e barbarico, un manicheismo assoluto e livoroso, da avvoltoi isterici, che si accanisce sui morti sepolti dopo quasi un secolo. Ma che si inseriscono in quella cancel culture, o nel modello woke, quel disprezzo verso la propria storia, tradizione, identità, avvertito ormai dalla popolazione. Poi, magari, i governi di centrodestra che verranno, intimiditi dal dominio ideologico della sinistra, faranno poco e nulla per invertire la tendenza. Ma perlomeno non la porteranno avanti, non ne fanno una bandiera. La gente richiede di riportare il noi al centro della politica; non può esistere del resto una politica incentrata sul primato di “loro” rispetto a “noi”, è una legge naturale di autoconservazione dei popoli quella di stabilire, senza fanatismi e integralismi, la priorità dei nostri interessi, della prossimità rispetto a quelli altrui, e dei remoti.
Come chiamare tutto questo sul piano culturale? Con una parola chiave: identità. Anche senza esserne pienamente consapevoli, i popoli chiedono di tutelare la propria identità: e sul piano pratico prima che culturale, passando naturalmente per gli interessi e i bisogni. Al tema dell’identità ha dedicato un lucido saggio Alain de Benoist, La scomparsa dell’identità, ora pubblicato in Italia da Giubilei Regnani. Quali sono gli elementi distintivi dell’identità? Per de Benoist sono la lingua, la cultura, gli stili di vita, il territorio, l’appartenenza e il desiderio di vivere insieme.
Il sostrato è profondo: esiste un’identità collettiva, un mondo comune, un noi, che precede le nostre individualità e il mondo globale. Contrariamente a quel che insegna la filosofia moderna e liberale, non nasciamo individui solitari ma eredi, figli e membri di una comunità famigliare, locale, linguistica, civile e religiosa. Esiste dunque un’identità personale e comune. La politica non può fare a meno di tutelare il noi; anche la solidarietà verso il mondo non può che partire dal noi. Certo, priorità non vuol dire primato, amor di comunità non vuol dire odio o disprezzo dello straniero. Ma da troppo tempo la xenofilia si è associata all’odio e al disprezzo per la propria identità, personale e collettiva. A questa tendenza “patriofoba”, che politicamente si traduce nel voto a sinistra, i popoli sembrano opporsi, cercando chi viceversa riporta alla realtà dei popoli e alla loro tutela. Partito dalla difesa delle identità rispetto all’individualismo global e al sistema liberale e capitalistico che ne fa da supporto, de Benoist indebolisce strada facendo la sua tesi, riducendo l’identità a narrazione e autonarrazione, in cui alla fine conta l’elemento soggettivo, il narratore. L’identità stessa, la tradizione e la prossimità appaiono a de Benoist soggettive, frutto della volontà e dell’interpretazione soggettiva. “La stessa inevitabile soggettività si ritrova nella ricerca delle origini”. A questo punto, l’identità si riduce a un fantasma: l’individualismo cacciato dalla porta rientra dalla finestra della soggettività. E il nichilismo sulle ali del volontarismo e del nominalismo torna a mangiarsi le tradizioni, le comunità, le identità, esattamente come nel sistema global-capitalistico. De Benoist indebolisce alle radici l’istanza identitaria, e nel lodevole tentativo di denunciare le patologie dell’identità, la comunità ridotta alla brutale negazione dell’altro, alla fine toglie la terra all’identità. La rende un fattore astratto, soggettivo, volontaristico e intellettualistico, privo di legami storici, concreti, vitali. Con la beffa aggiuntiva che ciononostante de Benoist viene ancora bollato ed emarginato come pensatore razzista e “nazista”.
Ma al di là della riflessione di de Benoist e del suo auspicio di superare l’universalismo e l’identitarismo comunitario nel nome di un pluriverso che riconosca le differenze, resta il messaggio dell’identità contro la sua scomparsa. Senza averne piena coscienza, i popoli reclamano una politica che parta dalla prossimità, dal più vicino, dal noi, e non dall’estraneità, dalla lontananza, dal loro. Più identità, appunto.
(Panorama n.24)