Napolitano, il comunista borghese d’apparato
Ora che se ne va per sempre, è giusto tributargli l’onore delle armi. Tutto sommato, Giorgio Napolitano è stato un decoroso presidente della repubblica, in piena tempesta economica, politica e globale. Ne abbiamo avuti di peggiori al Quirinale, benché moderati e sacrestani; anche dopo di lui… Da uno che è stato per una vita comunista, non ti aspettavi qualcosa di meglio e di diverso; invece da un democristiano, magari si.
Dimenticazionista in tema di comunismo, Urss e foibe, Napolitano fu un gran manovratore al Quirinale. Ci accompagnò con dignità nel baratro economico e politico di quegli anni, commissariati dall’Europa e dai tecnici, col suo concorso attivo. Fu burattinaio ma con un tocco di eleganza e d’intelligenza politica di lungo corso. Garbato, con un bel portamento istituzionale, Napolitano era un comunista borghese, fedele prima all’Unione Sovietica e poi all’Unione europea; fu uomo delle istituzioni, dicono, io traduco: fu sempre uomo d’apparato. Lavorò per la stabilità, dicono, io traduco: tramò sempre per l’establishment, anche aggirando la sovranità popolare e nazionale.
Sir George era uno di quei notabili napoletani che incroci al burraco o a chemin de feu nei circoli del sud, nelle conviviali dei Rotary e dei Lions; o sul molo Beverello e a Mergellina in attesa d’imbarcarsi per Capri su yacht privati. Comunista ma con classe, in attesa del mondo migliore frequentava la buona società; citava Marx nella traduzione di Monsignor della Casa… Morbido e signorile, pugni chiusi al popolo e baciamani alle signore; una pastiera d’uomo. Per anni la gente lo scambiò per il Principe di Napoli, Umberto di Savoia; anche nel Pci quella somiglianza saltava all’occhio e non gli giovava tra le masse e nemmeno ai vertici; Palmiro Togliatti la notò e gliela fece anche pesare.
Lo ricordo in un’estate di pochi anni fa, con quel suo cappello bianco dalle larghe falde, impropriamente chiamato paglietta. Quel cappello da fazendero o notabile del sud ricordava o’ paese do’ Sole, la granita di caffè, il circolo canottieri e il saluto col cappello sollevato: ossequi alla signora. Pagliette si chiamavano un tempo gli avvocati a Napoli. A vederlo con la paglietta, Napolitano ricordava Nino Taranto nella parte di Ciccio Formaggio o di venditore della Fontana di Trevi al gonzo americano.
Da Presidente della Repubblica fu costretto a uscire in pubblico più con Ignazio Larussa che con sua moglie Clio. La ragion di Stato e il protocollo delle parate lo costringevano a quel terribile ménage col fiammeggiante Ministro della Difesa del governo Berlusconi. Faceva pena vederlo passare in rassegna le Forze armate mentre a un passo da lui lo pedinava Ignazio che sembrava imitarne il passo, le pause e i saluti, in modo beffardo. Mezzo secolo da comunista per finire a spasso con Larussa, che non è una leggiadra compagna sovietica, come avrebbero pensato i vecchi comunisti. Quando si sottraeva alla compagnia di quell’allegro Caronte della Difesa, già camerata, mondano e femminiere, il povero Napolitano era costretto ai cerimoniali con Berlusconi premier; o quando proprio voleva ricrearsi non aveva di meglio che l’ex camerata Fini, di cui fu astuto manovratore. Dev’essere stato terribile per il galantuomo venuto dal comunismo napoletano passare i suoi giorni con questa gente qui, anticomunista, destrorsa e berlusconiana. A volte sembrava un prigioniero politico, ma alla fine lui se ne sbarazzò, con un elegante golpetto bianco, riuscì a far fuori il governo Berlusconi e a svenderci al Monti dei pegni.
Napolitano recitava con dignità il suo ruolo istituzionale. Dico recitava non a caso, perché Napolitano nacque attore, nei Guf di Napoli, i gruppi universitari fascisti, col Teatro degli illusi. A vent’anni prese i voti del comunismo e non li lasciò più. Non smise infatti di essere comunista né dopo la pubblicazione del rapporto Krusciov sui crimini di Stalin, né dopo l’invasione d’Ungheria, che anzi difese anche rispetto ad altri comunisti fuorusciti dal Partito, né dopo i carri armati a Praga o in Polonia e nemmeno quando regnava l’imbalsamato Brezhnev e il Pci prendeva ancora i soldi da Mosca. Smise di essere comunista dopo aver raggiunto il massimo d’anzianità, 45 anni di servizio nel Pci, e non per scelta ma per cessazione dell’azienda, perché il comunismo era caduto in Russia dopo il muro di Berlino. Un peccato di gioventù, il comunismo, durato fino alla tenera età di sessantacinque anni. Non è stato dunque un errore giovanile ma il senso della sua vita; ho troppo rispetto per una vita intera per considerarla solo un lungo preambolo sbagliato alla scelta compiuta in età senile, al seguito del suo partito. Comunque, meglio avere un passato da dimenticare piuttosto che venire dal nulla.
Non fu brillante come Pajetta o ideologico come Ingrao, né autorevole come Amendola o perfidamente intelligente e colto come Togliatti; non aveva nemmeno il dimesso anticarisma di Berlinguer. Era noto nel Partito come Giorgino per distinguerlo da Giorgione, il roccioso Amendola, suo capo-corrente, leader della destra Pci, più filosovietica e centralista della sinistra. Napolitano fu un comunista migliorista, anche perché il peggio può solo migliorare; fu sempre dentro il Pci, il partito alleato e subalterno di Stalin e dei dittatori dell’est, foraggiato dal Pcus. Altro che socialdemocratico, non fece con Saragat la scissione di Palazzo Barberini, fu allineato nel Pci in tutte le stagioni più plumbee. Si può dire nel suo necrologio o si deve solo ricordare che parlava un buon inglese in un partito che non andava oltre il russo ed è stato il Cristoforo Colombo del Pci, perché sbarcò per primo in America? Fu un rispettabile Presidente della Camera e un discreto ministro dell’interno; sui migranti firmò pure la discussa legge Turco Napolitano, che echeggia il titolo di un famoso film di Totò. Fu il primo comunista snob, precursore dei radical chic. Buon riposo, presidente.
La Verità – 24 settembre 2023