Ma è ancora possibile pensare l’Italia?
Ma che Italia siamo? A fine anno è d’obbligo un check-up, un tagliando generale sullo stato dell’Italia; e puntuale da 58 anni arriva il rituale Rapporto annuale del Censis che è l’unica autobiografia nazionale in progress, una specie di autocoscienza che incrocia dati statistici e analisi sociologica. Di solito i mass media estrapolano un paio di slogan e un paio di immagini suggestive dal rapporto dell’Istituto di ricerca fondato da Giuseppe De Rita, nel giorno in cui esce; ma poi chi si prende la pena di leggere e commentare il volumone edito da Franco Angeli?
La considerazione di partenza è di ordine politico. Come abbiamo scritto più volte anche noi, “le abbiamo provate tutte” tra governi tecnici o di transizione, sovranisti e populisti, “l’antipolitica asfaltante” e governi di centro-destra, di centro-sinistra, di sinistra-pentastellati, ora di destra-centro. Ma queste formule, dice il rapporto, non hanno funzionato. “Non si capisce chi potrà prendere decisioni collettive difficili, e soprattutto metterle in atto”. L’impossibile decisionismo, dunque. Che deriva, a nostro parere, soprattutto dall’impossibile sovranità politica e indipendenza nazionale in cui viviamo. Un deficit che viene prima della qualità dei leader e dei governi.
E gli italiani? Galleggiano, dice il Rapporto, sono bravi a muovere l’acqua per tenersi a galla; i gruppi sociali resistono grazie a “una continuata irradiazione adattiva”, cioè si arrangiano. Resistono alla crisi ma non vanno avanti. Adattandosi, “abbiamo smarrito porzioni crescenti d’identità”, vivendo sull’orlo di un declino senza ritorno. L’Italia, dice il Censis, è “una strana patria” con un millenario senso di appartenenza provinciale, ma ormai un popolo polverizzato con scarso senso della storia. E questo si traduce con un’assenza di traguardi e di coraggio, e una povertà di intenzioni. Non riusciamo a metter mano al nuovo, ma da questa barca non possiamo scendere. Gli italiani si ritirano dalla vita pubblica, e l’astensione è uno dei sintomi più evidenti.
Ma chi sono gli italiani? Il Censis non vede solo una mutazione antropologica ma anche morfologica degli italiani. Cambiano forma. Funzionano a pieno regime le fabbriche degli ignoranti; un’ignoranza “talvolta straripante, assedia il quotidiano e produce gravi distorsioni cognitive”. E poi ci sono i malesseri sociali; le diseguaglianze, o meglio, le diseguaglianze ingiuste; il collasso del sistema sanitario e in generale del welfare – che non è cosa di questo governo, ma è una tendenza crescente da anni – ma anche del sistema scolastico e universitario; l’incidenza del politically correct e dell’ideologia woke soprattutto sul linguaggio. Il rapporto aggiunge, a sorpresa, “il razzismo silente” degli italiani e comunque la difficile integrazione in una società multietnica, coi migranti passati nel giro di un ventennio da un milione e 300 mila a cinque milioni. Poi una serie di scenari, supportati da tabelle e dati significativi che investono la vita quotidiana, i matrimoni, la denatalità, gli orientamenti d’opinione.
Ma alla fine non si riesce a trovare una parola chiave, una sintesi finale che possa riassumere lo stato dell’Italia oggi. Il Censis ha sempre offerto generose e spesso creative immagini per compendiare il nostro stato presente. Invece questa volta non si può trovare la sintesi in un’espressione, come se avessimo raggiunto quell’”innominabile attuale” di cui scrisse Roberto Calasso. Inviandomi il rapporto del Censis, De Rita ha scritto:“continuiamo a pensare l’Italia”. Al tema e all’espressione “pensare l’Italia” dedicai saggi e articoli e promossi perfino un convegno più di trent’anni fa. Sacrosanto auspicio, ma sento venir meno il Soggetto, l’Italia. Da qualche tempo non riesco più a pensare l’Italia, lo reputo un compito fuori tempo, fuori luogo, impraticabile, rivolto a un’entità ormai ineffabile e liquefatta. Noto, anzi che ogni tentativo di pensare l’Italia, come fa il Censis, conferma che l’Italia non è più pensabile. Forse quel che definisco “l’infinito presente globale” ha assorbito il pensiero di un’identità, di una nazione, di un sistema-paese e della stessa italianità. Ho smesso di ripetere con Ezra Pound: “Credo quia absurdum. I believe in the resurrection of Italy”. No, non credo più alla “resurrezione” dell’Italia. Il rapporto del Censis si conclude con un auspicio: anziché sperare di veder scomparire i nostri mali dovremmo piuttosto avere “la grazia di trasformarli”. Impresa necessaria quanto proibitiva.
Neanche dieci anni fa pubblicai una Lettera agli italiani e girai l’Italia con un’ottantina di serate a teatro in forma di “comizi d’amore all’Italia”; oggi non riuscirei a farli, non ne avrei la motivazione e la voglia, mi sembrerebbe fuori contesto, a tempo scaduto. All’epoca era l’appello a un risveglio, prima che fosse troppo tardi, e lo spettacolo si risolveva in un gesto simbolico: rovesciare la clessidra, ovvero quando il tempo sta per finire, bisogna capovolgere la clessidra e ricominciare daccapo. Ora, che la clessidra è stata rovesciata di continuo con una serie di cambiamenti politici apparenti – “le abbiamo provate tutte”, si diceva agli inizi – l’impressione è che pensare l’Italia sia un parlare vano, a vuoto o a sordi con lo sguardo rivolto altrove. Dopo averlo fatto per una vita, non riesco a pensare l’Italia. La speranza è che sia solo un malessere passeggero o un sopraggiunto limite di chi vi parla.
(Panorama n.1 2025)