Le disavventure politiche di Longanesi
Ai tempi del fascismo Leo Longanesi fu fascista esagerato e frondista, ma non ebbe mai velleità politiche. Quando cadde il regime, invece, per due volte fu tentato dalla politica ma su versanti opposti. Chissà perché accadde ambedue le volte a Napoli e si risolsero entrambe nel nulla. Ma val la pena di raccontarle, come ho fatto al Teatro di Sirolo per la rassegna Penne all’arrabbiata, parlando più in generale di Longanesi e di Ennio Flaiano. La prima avventura partenopea fu con Curzio Malaparte, nel febbraio del ’44, nella sede del Partito Comunista a san Potito. Il longilineo Curzio e il brevilineo Leo, entrambi in forte odore di fascismo – autori di motti come “Mussolini ha sempre ragione” e “Spunta il sole canta il gallo Mussolini monta a cavallo” – accompagnati dal vicesindaco di Capri, l’ingegner Talamona, vanno da Maurizio Valenzi, dirigente comunista e membro del Cln, che poi sarà sindaco di Napoli. È lui a raccontarlo nel libro C’è Togliatti, edito da Sellerio. Malaparte e Longanesi “hanno molta simpatia per il Pci, lo considerano il partito dell’avvenire” dice l’autore. Valenzi ha tra i suoi collaboratori il giovane Giorgio Napolitano. Leo e Curzio sostengono di non essere mai stati strumento del regime fascista, anzi dicono di possedere testimonianze che dimostrano l’estraneità alle colpe del fascismo. In effetti, oltre che arcifascisti i due sono stati anche dissidenti, Malaparte è finito al confino a Lipari; a Longanesi hanno chiuso un paio di riviste e censurato alcuni scritti. Siamo imbarazzati, confessa Valenzi, che chiede loro di compilare una domanda autografa raccontando la loro storia. Malaparte lo farà, consegnerà poi la sua scheda autobiografica a Velio Spano (esponente di punta del Pci, già fondatore del Partito Comunista Tunisino) per sposare il Pci, seppur guardato con diffidenza dai comunisti. Longanesi invece tace, si fa assente, “non lo rivedremo più”, annota Valenzi. Probabilmente accompagnava solo Malaparte, voleva annusare il Pci o pensava a una delle sue goliardate estemporanee, ma non era seriamente intenzionato a iscriversi al Pci. Malaparte, che poi descrisse la Napoli di quei giorni ne La pelle, più audace e spregiudicato finì innamorato della Cina comunista e tra le braccia di Togliatti; Longanesi, più conservatore e scettico, fondò il Borghese e contestò da destra l’antifascismo, la sinistra e i comunisti. Malaparte amò gli estremi, Longanesi preferiva i paradossi e diceva che gli italiani sono “estremisti per prudenza”. L’unico modo per neutralizzare il Pci, avrà allora pensato, era entrare in massa nel partito, borghesi e anticomunisti…
Più serio fu dieci anni dopo il suo tentativo di scendere in politica nel versante a lui più congeniale. Passò da un Pc all’altro ma stavolta era il partito conservatore. L’antiborghese Longanesi aveva fondato la rivista Il Borghese, e ora fondava i circoli del Borghese, una prefigurazione del centro-destra, aperti a conservatori, moderati, liberali, cattolici, missini e monarchici. Girò per mezza Italia a fondare i circoli e raccogliere adesioni per quella che battezzò La lega dei Fratelli d’Italia (che nome attuale…). Nominò segretario generale della nascente Lega il giovane Piero Buscaroli.
Per far decollare la Lega pensò di andare a trovare il facoltoso presidente del Partito Monarchico, nonché editore del quotidiano Roma e armatore ricco e famoso, il Comandante Achille Lauro, all’epoca sindaco di Napoli. Si fece accompagnare da un giovane collaboratore del Borghese e del Roma, Toni Savignano, che gli procurò l’appuntamento (feci raccontare a Savignano l’episodio in un articolo gustoso che pubblicai sul settimanale Lo Stato). Lauro fece fare lunga anticamera a Longanesi. Spazientito per l’attesa, Leo andava su e giù senza sedersi. Poi O’ Comandante li ricevette nello studio che affacciava su Piazza Municipio dopo aver percorso lunghi corridoi tra ali di vigili in alta uniforme. Ma fu un dialogo tra sordi. Leo tentò di parlargli dei circoli e della necessità di fondare un movimento di centro-destra oltre i partiti; don Achille non lo ascoltava e gli parlava invece di Napoli, lo faceva affacciare al balcone, gli mostrava i cambiamenti che voleva apportare alla Piazza e al teatro Mercadante, per rendere bella e moderna Napoli. A un certo punto Longanesi sibilò a Savignano “non c’è niente da fare”, si alzò di scatto, salutò O’ Comandante e schizzò via dallo studio.
I sogni politici di Longanesi, di sinistra e poi di destra, morirono a Napoli tra le braccia di due sindaci della città, uno comunista e in pectore, l’altro monarchico e in carica. Ma Longanesi non era fatto per l’organizzazione politica, la sua specialità era disorganizzare, sparigliare, con imprevedibile spirito anarcoide-creativo. Anche in epoca fascista le sue riviste furono disorganiche, vivaci e scapigliate, anche se nostalgiche dell’ottocento, il secolo delle nonne e del rosolio. Longanesi mantenne, anche sotto il regime, una divertita libertà che conservò sotto l’antifascismo. Il fascismo mise la mordacchia a qualche sua rivista, ma Longanesi restò Longanesi; l’antifascismo non censurò nessuna sua rivista ma mise la sordina a Longanesi che finì ai margini, da outsider.
Col Duce Leo non condivise la romanità pomposa, semmai la romagnolità sanguigna. Riuscì a far ridere Mussolini quando in Libia da Italo Balbo fece la caricatura del re Sciaboletta e si spacciò per lui girando travestito sotto un berrettone militare, su un’auto decappottabile. Il re lo venne a sapere e protestò, il Duce gli fece una dura reprimenda, ma poi si fece un sacco di risate.
Longanesi pensò a uno stile, a un gusto ma non ebbe mai una visione ideologica e una cultura politica. Teneva più a Bodoni che a Machiavelli; fu uomo di carattere, ma nel senso tipografico. Fautore dell’ordine, Longanesi si distinse per il suo disordine d’artista. Longanesi viveva di lampi e d’ironia, non era un leader politico né uno stratega. Era incostante e scoppiettante. Fulminante nelle sue battute, nei suoi aforismi; fulminante fu pure la sua morte. La destra per Longanesi era conservatrice e un po’ anarchica, ma non priva di senso dello Stato. Come Guareschi, Leo amava l’italianità mediterranea, che è cattolica anche quando è pagana, popolare anche quando è borghese, individualista anche quando invoca l’autorevolezza dello Stato, provinciale e strapaesana anche quando è cittadina, bolognese e milanese. Longanesi sognava un conservatorismo nostrano, immerso nel ragù nostrano più che nel brodo calvinista e protestante. Amava l’America come ombrello protettivo e arnese d’uso, non come modello di vita e di cultura, che detestava. Aveva una visione solare della borghesia italiana, non umbratile o piovosa. Una borghesia rispettabile ma non austera, leggermente giocosa e piuttosto matronale, più che matriarcale. Ma la borghesia italiana, alla fine, perse il suo status e la sua funzione proprio per la sua voglia di mimetizzarsi e somigliare agli altri, i proletari di casa o la middle class angloamericana. Volle apparire a tutti i costi nuova e d’importazione, libera da ogni tradizione e storia, solo figlia smaliziata del proprio tempo. La borghesia italiana finì da radical chic, pur desiderando la borghesia d’altri. Longanesi ne scrisse in anticipo l’epitaffio, le scattò la foto per la lapide futura e le dedicò non fiori ma opere, disegni e battute.
La Verità – 17 novembre 2024