La sorpresa della morte

Dopo la notte di Halloween, vorrei lanciare un promemoria diverso sul rapporto con la morte che non c’entra nulla col cazzeggio mortuario di zucche e scherzetti.

Parto da un’esperienza frequente e rimossa. Verranno a prelevarti i tuoi cari quando sarà l’ora di morire.

Quando la vita sta per abbandonarci, il più caro tra i nostri cari scomparsi viene a prenderci per il passaggio all’altra riva, come succedeva da bambini quando uscivamo da scuola.

Ci aspetta sulla soglia, nella grande luce, invitante nello sguardo, a volte tende la mano e il morente lo chiama stupito ad alta voce, desidera aderire all’invito, qualcosa lo trattiene al di qua della soglia, fino a che si libera e procede nell’azzurro verso il suo accompagnatore definitivo.

Tanti lo raccontano, attraverso l’esperienza indiretta dei loro cari, e varie testimonianze lo confermano, ma raramente questa strana incursione finale viene affrontata.

Il pudore che avevamo sul sesso si è trasferito sulla morte, abbiamo vergogna di svelare le esperienze del dolore; abbiamo vergogna della morte. E temiamo di passare per superstiziosi primitivi, in cerca di consolazioni puerili; piccole stregonerie kitsch che non si addicono alla ragione civile e moderna.

Eppure è un pensiero dolce e assai confortante che promette un ritorno, un riunirsi nella luce.

La solitudine del morente è solo apparente e riguarda il mondo dei viventi. Le rare esperienze di passaggio a cui ho assistito e le altre che mi sono state riferite confermano questo percorso: quando il morente è alla fine, la persona più cara che ha perso – solitamente il padre, la madre, il/la consorte – gli riappare e lo conduce oltre.

Anche persone che ignoravano la ricorrenza di questa visione finale la riferiscono puntualmente ma spesso con disattenzione, come un marginale dettaglio. E invece quella testimonianza è decisiva, dice una cosa straordinaria: non si muore soli, al buio, nella cecità estrema della vita, ma si va via in compagnia verso una fonte di luce.

Quell’esperienza elementare, così diffusa e così verace perché non si ha voglia di fingere in punto di morte, racconta il destino della nostra vita più delle teorie mediche o psicofisiche.

La spiegazione scientifica di quella visione è che il pathos delirante dell’agonia porta all’allucinazione; la concentrazione sulla vita che se ne va evoca il trauma di quando morì la persona più cara e risveglia il suo ricordo in uno stato di semi-lucidità che ha le sembianze della veggenza.

Ma è una spiegazione che nulla spiega, o comunque spiega in modo insufficiente i moti dell’anima, le visioni della mente e la meticolosa ricorrenza di questi incontri finali. Rivela la curvatura del tempo, ovvero la riemersione del passato insieme al futuro.

Il tempo si curva e ciò che fu, ritorna; la sequenza lineare del tempo profano si sfalda nella pienezza assoluta di un istante cruciale, ove tutto è presente e arde d’addio. Al morente è data in extremis questa veggenza profetica della vita e questa visione sferica e psichica del tempo, preludio di uno stato ultraterreno; il tempo svanisce al momento del congedo.

La morte trasforma, trasloca, non annienta.

Chi è scomparso non è inghiottito nel nulla e nel buco senza fondo del tempo passato ma vive come un’idea; è presente alla vita dei suoi cari ed è vicino nei loro passaggi cruciali.

Qualcosa sopravvive alla vita, non solo il fumo e la cenere dopo il fuoco; chi ama porta dentro di sé la presenza dell’amato. L’amore è il suo respiro, amare è come dire tu vivi anche se non sei più qui, nel corpo e sulla terra.

La trasmissione di padre in figlio, che è poi il seme della tradizione, non è un’ideologia o un’illusione, ma è un evento reale e simbolico al tempo stesso, naturale e soprannaturale. C’è un passaggio di consegne, una catena che si rinnova, un procedere mano nella mano oltre la vita e tramite il corso delle generazioni.

L’amore non è un modo di dire che accompagna alcuni momenti della vita, ma è il filo conduttore tenace e sommerso che guida la vita e ne evita la dispersione. Dovremmo invertire i saluti, e dirci non addio ma arrivederci quando ci allontaniamo definitivamente in punto di morte.

Di più non sappiamo dire; però davanti alla disperata euforia dei nostri giorni, dove l’essere sparisce nel nulla e si gode la vita al consumo, una strana allegria ti prende nel sapere che la morte restituisce i remoti attraverso l’amore.

Come l’estate di san Martino, c’è pure l’estrema allegria della morte. La morte non separa ma ricongiunge.

MV, Il Tempo 1 novembre 2017

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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