La satira è libera ma solo in certi casi
Com’è finita poi la storia della vignetta sul ministro Lollobrigida e sua moglie? E’ finita nel nulla, come era facilmente prevedibile. Tanto rumore per nulla. Non una censura, non un intervento della magistratura, nessuno ha chiesto scusa. Meglio così. La censura è sempre peggio del male che vuol castigare, la magistratura è bene che stia alla larga dalla satira, le scuse a posteriori avrebbero sapore di ipocrisia e di presa in giro.
La reazione del presidente del consiglio Meloni alla vignetta era comprensibile sul piano umano, perché si sentiva toccata negli affetti e nei sentimenti più intimi. Ma è servita solo a centuplicare l’effetto della vignetta, a darle una risonanza esagerata; e se la sua reazione avesse avuto un esito punitivo, sarebbe passato per vittima il vignettista; avrebbe avuto un effetto boomerang. Quando il potere attacca la satira, almeno in democrazia, ha solo da perderci; meglio che non intervenga mai sulla satira. E’ odioso se esercita la sua potenza, sfigura se mostra la sua impotenza. I potenti più furbi lo fanno in modo subdolo, la Meloni è stata sincera e forse impulsiva. E anche questo è apprezzabile sotto il profilo umano ma è una debolezza, un errore, sotto il profilo politico e istituzionale. Non si scende dal Palazzo a bisticciare con i vignettisti.
Finita nel nulla, la polemica ha avuto un implicito verdetto: la satira va lasciata libera; libera anche di sbagliare. E quando è di cattivo gusto, quando è brutta, è cattiva, è giusto criticarla ma non dall’alto scranno del governo. Criticarla e spernacchiarla si può, sanzionarla a norma di legge no.
Ha vinto dunque la tesi che la satira non debba avere limitazioni; sarà il pubblico l’unico giudice attraverso il gradimento a deciderne la sorte.
Per la verità qualche limite va riconosciuto: per esempio non si può irridere le vittime di massacri, stermini e torture, come i martiri, le vittime della Shoah, dei gulag, delle foibe e di altri campi dell’orrore. Non si può irridere la religione e i suoi simboli ritenuti sacri dai credenti; non si può irridere Cristo in croce, Dio, Allah, Iavhé, si deve rispettare ciò che è sacro anche quando non si condivide. E non si possono, tramite la satira, dire o pubblicare falsità: quella non è satira ma calunnia o diffamazione.
Per il resto, la satira può essere pure sgradevole ma va lasciata libera, hanno ripetuto in coro coloro che sono intervenuti a difesa della vignetta o meglio, contro la Meloni. D’accordo. Ma mi auguro che questa conclusione non valga solo in questo caso ma sia estesa anche ad ambiti in cui la satira è praticamente vietata; perché sono molti i casi in cui ti rovini se provi a scherzare su certi personaggi e certi temi. Mi riferisco alla satira verso personaggi intoccabili, categorie protette, soggettività su cui è severamente vietato scherzare. Provate a fare una vignetta su un nero, un migrante, un rom, una donna, sul MeToo, su un gay, un trans o su altri temi giudicati “sensibili” a senso unico. Provate a scherzare sui difetti fisici, magari è sgradevole farlo, è di cattivo gusto, ma non si può invocare la polizia contro una vignetta o una battuta di quel genere. E invece in tutti i casi citati vedete che inferno si scatena, che punizioni esemplari, che condanne definitive appena commetti il “sacrilegio”. Perdi la faccia, il rispetto, il posto di lavoro, la libertà, i diritti. A me piacerebbe invece che la conclusione a cui è giunta la vicenda della vignetta del “Fatto”, indipendentemente dal giudizio in merito, sia applicata coerentemente a tutti i casi di satira. Se la satira dev’essere libera lo sia sempre, salvo i casi off limits che sono stati indicati; oltre i quali ci può essere il libero sdegno, la riprovazione, la stroncatura ma omeopatica: ovvero opinione libera contro opinione libera. Senza chiamare i carabinieri.
Un tempo vigeva uno strisciante bigottismo che invocava la buoncostume a ogni lieve o presunto oltraggio al pudore. Oggi c’è un nuovo petulante, arcigno, repressivo bigottismo, che invoca la nuova buoncostume per ogni lieve o presunto oltraggio al politically correct e ai suoi affluenti. Non parliamo poi sul piano ideologico, storico e politico; guai a scherzare su certi temi. Mai come ora la satira è frenata da un reticolo di dogmi e divieti.
Alla fine, il criterio principe per giudicare la satira è se diverte, se fa ridere, se stimola l’intelligenza all’esercizio brioso del paradosso, del comico, dell’umorismo. Magari con l’auspicio che lo faccia senza offendere la dignità di nessuno, senza mortificare nessuno: ma se succede, giusto reagire, redarguire, perfino un po’ arrabbiarsi. Ma alla fine non è morto nessuno, è solo una battuta, non è la descrizione della realtà ma la sua caricatura, cioè il lato esagerato e grottesco della realtà. La satira, certo, può fare anche danni; ma un danno maggiore è quando viene soffocata, perseguitata, abolita. Il gioco vale la candela. E la satira è un gioco, e noi italiani a quel gioco ci giochiamo da secoli, con allegria, a volte per non intristirci, a volte per non infuriarci. Succede pure che la satira faccia abortire la ribellione, sgonfi l’indignazione e la rivolta in una battuta di spirito. Allora la sua carica “eversiva” inverte il suo effetto, così la satira si rivela la migliore alleata del potere, perché butta il dissenso in caciara, risolve la rabbia in una risata, e tutto il potenziale bellicoso che si cova dentro viene disarmato da una battuta. Così lo status quo non viene sfiorato.
Insomma, la satira giova o nuoce, secondo i casi e le situazioni. Ma è sempre meglio avercela anziché no. Può far bene, può far male, ma è bene che esista. Purché si possa rivolgere urbi et orbi, senza esonerare furbi e corvi.
La Verità – 28 aprile 2023