In Del Noce la chiave per capire il nostro tempo
Chi era Augusto Del Noce? Era un filosofo appartato che pensò l’Italia come il laboratorio delle idee in cui è incubata la storia del mondo; l’Italia in cui nacque il fascismo e fu oltrepassato il marxismo, poi entrata nell’orbita atlantica e democristiana, percorsa dal ’68 e dal gramscismo, dominata dall’antifascismo, dallo scientismo e dalla scristianizzazione, e infine dal “partito radicale di massa” e dal “nichilismo gaio”.
Ebbi da giovane l’onore di frequentarlo negli anni ottanta e di collaborare con lui in più occasioni; Del Noce mi propose alle pagine culturali de Il Tempo e de Il Sabato e scrisse la prefazione al mio Processo all’Occidente che fu il suo ultimo scritto prima di morire, alla fine del 1989. Pochi lo conoscono, pochi ne parlano; ma quei pochi, benché lontani dal suo pensiero, ne scrivono con enorme considerazione, da Massimo Cacciari a Giacomo Marramao, a Roberto Esposito. E invece, in una lettura sommaria – avallata da Norberto Bobbio, Lucio Colletti e Gianni Vattimo – Del Noce fu incasellato come cattolico tradizionalista, controriformista e antimoderno, un de Maistre redivivo. In realtà Del Noce criticò il tradizionalismo e l’antimodernismo, si cimentò con la modernità, i suoi autori e i suoi temi, criticò il progressismo ma non sognò di tornare alla controriforma. Pose invece l’esigenza di una riforma religiosa e civile e di una “restaurazione creatrice”, come Gabriel Marcel aveva parlato di fedeltà creatrice.
Ora Luciano Lanna ha dedicato un ampio e approfondito studio a Del Noce con un titolo assai indicativo: Attraversare la modernità, pur accompagnato da un sottotitolo che ricorda l’“inattualità” del pensiero di Del Noce. Pubblicato da Cantagalli con una bella prefazione di Giacomo Marramao, il saggio di Lanna – che abbiamo presentato all’Istituto Treccani in Roma – ricostruisce attentamente il cammino filosofico di Del Noce e lo sottrae alla riduzione antimoderna e tradizionalista in cui fu ricacciato. Il pensiero di Del Noce, in effetti, non può definirsi neanche conservatore o reazionario, categorie in cui Del Noce non si riconobbe. A suo dire il limite delle posizioni antimoderne e tradizionaliste è quello di arrestare la verità a un momento storico del passato, elevandolo a verità assoluta; errore simmetrico a quello progressista o rivoluzionario che elevano a valore assoluto il presente o l’avvenire. Del Noce distingue invece tra storia e metastoria, tra essere e divenire, tra tempo e verità. Il suo vero autore di riferimento è Giambattista Vico, che non si oppose al suo tempo rimpiangendo il tempo passato ma delineò un’altra modernità possibile. Come Vico, anche Del Noce vide nella tradizione non il culto del passato ma il filo della continuità alla luce dell’Essere, nel suo dipanarsi storico; la tradizione trasmette ciò che vive e permane, non custodisce reliquie, non sogna retromarce e non vive di rimpianti.
Secondo Lanna il Vico secondo Del Noce è un continuatore di Cartesio, proteso a salvare la storia moderna dall’irreligione e dall’ateismo. In realtà Vico si oppose a Cartesio e soprattutto al razionalismo dei cartesiani che aveva “infrancesato” la società letteraria napoletana del suo tempo, da cui scaturirà poi l’illuminismo vesuviano. Vico riconosceva, come farà poi Del Noce, che la ragione non è la regina assoluta ma tra Dio e il mondo c’è di mezzo la storia, la tradizione, il comune sentire dei popoli, l’esperienza reale, la mano della Provvidenza. Cogito ergo sum, per Vico, fonda una pretesa soggettivistica: non è l’io che pensa l’essere ma è l’essere che pensa in me. L’essere precede e fonda l’io, non il contrario. Vico criticò Renato Delle Carte, come chiamava Cartesio, ma non per tornare alla Scolastica e al Medioevo, semmai per riconoscere il rapporto tra provvidenza e storia, tra mito e pensiero, tra sapere antico e scienza nuova; e anche tra autorità e verità come tra il vero e il fatto (o il certo). Su quella linea troviamo anche Del Noce, che fu forse il suo vero erede nel Novecento. La storia, per Vico come per Del Noce, rovescia spesso le intenzioni dei suoi protagonisti (eterogenesi dei fini).
Come Vico, Del Noce pose il tema del risorgimento delle nazioni. E pensò a un nuovo Risorgimento, categoria ben diversa dalla Restaurazione o dalla Rivoluzione. Il Risorgimento per lui era espressione religiosa e storica al tempo stesso, risurrezione e rigenerazione civile, e rinsaldava cristianesimo e amor patrio, cattolicesimo e nazione. Tema caro anche a Giovanni Paolo II.
Del Noce colse nel fascismo l’inveramento nazionale e spirituale del marxismo; egli ritenne che il fascismo fosse già in nuce nell’opera giovanile di Giovanni Gentile la Filosofia di Marx, del 1899. Su questo tema rivolsi a lui obiezioni, ritenendo che in realtà il fascismo si riconoscesse più nel volontarismo di Sorel e fosse un inveramento nietzscheano del marxismo; e la sua essenza fosse più la continuazione politica della visione estetica dannunziana e futurista. Peraltro Gentile non fu letto e mai citato da Mussolini, a differenza di Sorel, di Nietzsche e perfino di Croce, almeno fino al regime fascista, quando affidò a Gentile il ministero della pubblica istruzione per portare a compimento la riforma crociana della scuola. L’egemonia gentiliana durante il fascismo fu assai contrastata; in un mio libro ricostruì i tanti filoni antigentiliani interni al fascismo. Le mie obiezioni erano valide sul piano storico in rapporto alle idee, ma Del Noce svolgeva una rigorosa tesi filosofica: Gentile aveva compiuto sul piano teorico quel che il fascismo avrebbe realizzato sul piano storico.
Altra obiezione feci a Del Noce sul suicidio della rivoluzione in Gramsci (e a latere in Gentile che ne fu il principale ispiratore). Gramsci, sosteneva Del Noce, per conquistare il potere cercò un compromesso con la borghesia progressista; così sostituì l’anticapitalismo con l’antifascismo e propiziò il suicidio della rivoluzione nelle braccia della nuova borghesia e del nuovo capitalismo, gettando così le basi per il passaggio dal comunismo al radicalismo liberal-progressista. Ciò avverrà a partire dal ’68; qui il pensiero di Del Noce collimava con la visione di Pasolini.
Analisi acuta e anticipatrice, quasi profetica; ma se vogliamo cogliere per intero il senso del nostro tempo, gli obiettavo, dobbiamo riconoscere che il suicidio della rivoluzione s’intreccia al suicidio della conservazione. Da entrambi e per reagire a entrambi era nato il fascismo, che cercò di essere una rivoluzione conservatrice. Quel che resta dopo il fascismo di quel duplice suicidio è l’interminabile decomposizione in cui si trovò non solo l’Italia ma anche l’Europa e l’Occidente; della rivoluzione restò la dissoluzione e della conservazione restò la stagnazione. Fallita la rivoluzione conservatrice avvenne il suo contrario, la stagnazione dissolutrice. Del Noce ne fu il critico più coerente e vide profilarsi quel “nichilismo gaio”, ultimo stadio dell’irreligione occidentale. Rispetto a questa attualità, ha ragione Lanna, il pensiero di Del Noce resta inattuale.
La Verità – 26 novembre 2024