Il Beato Mattarella regna con le parole
Beato Mattarella. Ogni cosa che dice, anche buongiorno e buonasera, è oro colato, con titolo ossequioso dei telegiornali, ola istituzionale, salmi in suo onore a mezzo stampa e bava dei quirinalisti al seguito. Nessuno lo critica, tutti lo hanno rieletto al Quirinale, e chi non lo ha votato, come la Meloni, deve comunque governare sotto il suo regno e chinarsi al suo cospetto. La destra al governo lo ossequia perché deve ogni giorno fare i conti con lui; la sinistra lo ossequia perché lui dice cose che portano acqua al loro mulino, gli ex democristiani vedono in lui uno della loro antica parrocchia, i grillini sono accucciati ai suoi piedi e così tutti gli altri. Lo rielessero per acclamazione, perfino Salvini, che ora vuol rimediare puntando sul generale Vannacci. L’immunità di Sua Beatitudine Mattarella è più assoluta di quella del Papa, a cui magari qualcuno può rimproverare, che so, la mancata rimozione di un prelato corrotto o pedofilo; il Capo dello Stato invece no, è esente da ogni critica e da ogni addebito, è sciolto da ogni responsabilità, non risponde dei funzionari pubblici e di nessuno, nemmeno dei corazzieri, ma solo di se stesso o al più della sua controfigura, Ugo Zampetti, gemello di testabianca. Il Beato Presidente è insindacabile e incontestabile, se lo tratti come una Meloni qualsiasi è vilipendio al Capo dello Stato, se parli della sua famiglia non ne parliamo. E’ ormai il Capo dello Stato più longevo della Repubblica, e compete per durata con i Sovrani.
Il Quirinale, poi, è un favoloso gerovital. Ringiovanisce i suoi inquilini, li rivitalizza come nessuna terapia potrebbe. Ricordo come ringalluzzì Napolitano al Quirinale. E Mattarella, ve lo ricordate agli inizi? Curvo, gibboso quasi come Andreotti, dimesso nel suo passo felpato, oppresso da un parruccone bianco, sibilante con la sua voce da funerale, sguardo basso come in penitenza o in sagrestia. Beh, ora ha portamento diritto e quasi spavaldo, parla ad alta voce, come un capo delle forze armate, il suo parruccone bianco è diventato una cover bianca, giovanile e trendy, cammina con passo spedito e guarda in faccia uomini e telecamere… Sembra Benjamin Botton o Pipino che nacque vecchio e finì bambino….
Ma tutto questo è secondario rispetto al privilegio di cui gode rispetto a ogni altra figura istituzionale: Mattarella deve solo dire, enunciare, ammonire, deplorare; non ha alcun impegno a fare e realizzare. Il suo compito è solo verbale, si esaurisce nella parola, “fermo monito”, “vibrante appello”, “commosso ricordo”, e via dicendo. A un premier corre l’obbligo di fare, e ogni volta che dice qualcosa viene poi inchiodato alla coerenza dell’agire conseguente. Per lui invece, no, basta la parola, gode del divino potere del Verbo; che si fa carne, senza bisogno di passare ai fatti. Quando era all’opposizione, pure la Meloni era esonerata dal fare e tutta la sua forza era nel dire, come ora la Schlein; ma da premier è molto dura far seguire alle parole i fatti. Che stress, ogni mese che passa è un anno in più addosso, undici mesi come undici anni.
Il Capo dello Stato, invece, non deve mantenere la parola ma solo dirla, la sua funzione è l’omelia, la pubblica orazione, il pippone istituzionale; è esonerato dalla prova pratica, come gli arcangeli, i cherubini e i serafini deve solo intonare salmi in gloria e in memoria, recitare il sermone e fare l’anima bella. Il suo compito è orale; insegna che il bene è meglio del male, la libertà è meglio della dittatura, il diritto meglio del rovescio. A Mattarella è richiesto solo di predicare, possibilmente qualcosa di prevedibile, di ovvio, di scontato, così gode della comprensione unanime e del consenso generale. Da chi governa, invece, si pretende che faccia qualcosa per l’Italia e per gli italiani e non si limiti ai virtuosi sermoni. Nessuno imputa al Beato Presidente la miseria, la disoccupazione e i guai italiani; mentre la Premier si becca tutto, è correa pure delle calamità naturali, dei disastri ferroviari, dell’orsa maggiore uccisa e degli orsi minori allo sbando.
Ma la priorità del dire sul fare ha assunto una brutta piega generale. Per esempio, chi stupra e violenta merita meno esecrazione di chi dice qualcosa di sconveniente in merito, tipo evitate di ubriacarvi sennò finite più facilmente preda degli stupratori. Considerazione perfino banale nel suo ovvio buon senso, ma se la dice il consorte di Lady Giorgia è più grave di chi stupra. Oppure: è più grave chiamare qualcuno clandestino che essere realmente clandestini: il primo può configurare un reato, il secondo non lo è più. La condanna dello stupratore di colore è meno vibrante e sdegnata della condanna di chi sottolinea che è di colore: il dire conta più del fare, cioè dello stuprare. O ancora, se rivendichi il diritto a odiare gli stupratori e i pedofili, come ha fatto il generale Vannacci, sei moralmente condannato peggio che tu fossi stupratore e pedofilo. Il suo dire supera in efferatezza il loro fare. E se hai un giudizio storico diverso sul passato, sei complice postumo dei campi di sterminio. Le parole ti mandano all’inferno o in paradiso.
Nella società dominata dall’ideologia woke, politically correct, e via dicendo, il dire è più importante del fare; i reati sono più di opinione che di fatto, su questi c’è indulgenza, su quelli no. Il dire ti salva e ti assolve o ti inchioda e ti condanna; perdi il posto, devi dimetterti, devi sparire, hai detto la frase proibita.
Tutto questo ha un significato profondo: la realtà conta sempre meno della sua rappresentazione; la vita concreta, i fatti e il mondo reale, contano meno delle opinioni, dei birignao e dei pregiudizi che ti guidano. Puoi essere stato il miglior cittadino, soldato, atleta, marito, padre, puoi aver fatto cose egregie e meritevoli nella tua vita, ma se dici una di quelle cose sconvenienti in materia di sesso, migranti, razze, storia, ti sei rovinato per sempre, perdi ogni credito e ogni rispetto. Non vogliamo fatti ma parole. Viva viva Mattarella.
La Verità – 3 settembre 2023