Gramsci? No, grazie

Giù le mani da Antonio Gramsci, hanno tuonato a sinistra quando il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano ha osato proporre una lapide commemorativa del pensatore alla clinica Quisisana di Roma dove si spense nel 1937. Curiosa l’intolleranza bilaterale della sinistra: se il governo di destra celebra un autore di destra viene accusato di occupare manu militari la cultura; se celebra un autore di sinistra se ne vuole appropriare, rubandolo a sé e ai suoi legittimi “detentori”.  Non c’è scampo.
Ieri sul Corriere della sera Sangiuliano è intervenuto spiegando le ragioni del suo gesto per ricordare un autore importante nella storia culturale e civile italiana e segnatamente nell’ideologia italiana. Una scelta da condividere: Gramsci merita di essere ricordato per la forza del suo pensiero, la coerenza della sua scelta, l’importanza che ha avuto nella cultura del nostro paese e per il carcere patito. Si può non condividere nulla di lui, ma non si può disconoscere tutto questo.
Se invece passiamo dal riconoscimento intellettuale e il rispetto storico e umano della sua figura all’annessione e alla rivendicazione di un presunto “gramscismo di destra”, allora lasciate che risponda in modo molto netto: Gramsci? No grazie. 
Per cominciare sfatiamo la leggenda recente di un Gramsci “liberale”. E’ una storia falsa e pure offensiva: il primo a offendersi sarebbe lui. Gramsci è sempre stato coerentemente comunista e socialista, antiliberale e anticapitalista. 
Ma non solo: quando il regime autoritario fascista lo incarcerò per le sue idee, in carcere Gramsci teorizzò un regime totalitario ben più radicale di quello che lo aveva sbattuto in galera. Gramsci non si oppose alla violenza e alla dittatura, ma distinse una violenza e una dittatura regressive che identificava nel fascismo a una violenza e una dittatura progressive che identificava nel comunismo e nella rivoluzione russa di Lenin. La prima era da combattere, la seconda da sostenere. 
Gramsci fu e restò profondamente leninista, e anche la sua idea di calare la rivoluzione comunista in occidente, nel nostro tessuto nazionale e popolare, era esattamente quel che aveva teorizzato Lenin. Gramsci restò profondamente legato al totalitarismo, anche se la via per imporlo in Italia, in Occidente, era in primo luogo pedagogica, attraverso la conquista culturale per raggiungere poi la conquista civile e politica. E’ il senso dell’egemonia culturale gramsciana, che prevede come tappe intermedie il compromesso e l’alleanza con le forze “progressiste”. Ma la finalità resta la stessa. Peraltro la sua ideologia e la sua prassi traggono spunto non solo dall’esperienza leninista sovietica ma anche dall’esperienza fascista; Gramsci fu interventista al seguito di Mussolini ancora socialista rivoluzionario; è nota la suggestione che esercitò su Gramsci e sul mondo di Ordine nuovo il pensiero di Gentile, oltre quello di Sorel, che lo accomunò a Mussolini. 
Sant’Antonio Gramsci, come lo definì ironicamente Rosario Romeo, demolì la tradizione nazionale, religiosa e civile, letteraria e culturale italiana, sulla base del suo canone ideologico, esaltando al suo confronto quella russa. Liquidò Dante come un reazionario, “un vinto dalla guerra delle classi…egli vuol superare il presente ma con gli occhi rivolti al passato”. Dante è amato dai “professori rimminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta e scrittore” (già, Dante era solo “un qualche poeta e scrittore”…). Sbrigò Petrarca come “un intellettuale della reazione antiborghese” e il suo Canzoniere “una manifestazione di cultura elitaria, cortigiana, insincera…un fenomeno puramente cartaceo”. Per Gramsci l’umanesimo “fu un fatto reazionario della cultura”. Considerò Foscolo autore retorico, “esaltatore delle glorie letterarie e artistiche del passato”, e inchiodò Leopardi al “calligrafismo” e crudelmente aggiunse “nascono già vecchi di 80 anni, senza freschezza e spontaneità di sentimento”, malati di “torbido romanticismo” e di una visione “passatista e reazionaria”. A Manzoni Gramsci rimproverò di prendere in giro gli umili: “Il popolo nel Manzoni nella sua totalità è bassamente animalesco”. Mentre Tolstoj è per Gramsci evangelicamente vicino al popolo, il cristianesimo di Manzoni “ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un paternalismo popolaresco gesuitico”. E la mattanza continua. Mazzini è animato da “un mito puramente verbale e cartaceo, retorico, fondato sul passato”, Carducci è salvato solo per il suo “Inno a Satana”, a Pascoli rimprovera ancora la retorica e “la bruttezza di molti componimenti” “la falsa ingenuità che diventa vera puerilità”. D’Annunzio “é stato l’ultimo accesso di malattia del popolo italiano”. Verga e il verismo sono stroncati perché si limitano “a descrivere la “bestialità” della così detta natura umana (un Verismo in senso gretto)” e non offrono “apprezzabili rappresentazioni del lavoro umano e della fatica”. E’ strage poi nel Novecento: Soffici scrive opere “intimamente ripugnanti”, Ungaretti è “un buffoncello di mediocre intelligenza”, Montale – e così Comisso – “esercita la professione di sacrestano letterario e nulla più”; Papini è un “boxeur di professione della parola qualsiasi” e “un grande fabbricatore di luoghi comuni rovesciati”, Prezzolini si adatta in un comodo cinismo per “la propria inettitudine organica”; i letterati vociani tradiscono “tendenze carnevalesche e pagliaccesche”; Malaparte denota “uno sfrenato arrivismo, una smisurata vanità e uno snobismo camaleontesco”. Se questa è la cultura, meglio la barbarie… 
In una lettera del ’29, Gramsci scrive:“l’uomo è una formazione storica ottenuta con la coercizione”, allineandosi alle tesi del sovietico Makarenko e respingendo le teorie pedagogiche di Gentile. Gramsci disprezza i docenti, “noiosissima caterva di saputelli” “i professori canagliuzze, insaccatori di leggiadra pula e di perle, venditori di cianfrusaglie”. Il Gramsci maturo auspica la cancellazione del latino e greco per “la loro inessenzialità come contenuto esclusivo e privilegiato” e auspica che la scuola sia organizzata come una fabbrica, come nell’Urss di Stalin e di Lunaciarskij. Notava Lombardo Radice: “Gramsci si poneva – come Stalin e non contro Stalin! – sul terreno del marxismo creatore (E’ stato proprio Stalin a dire: “esiste un marxismo dogmatico e un marxismo creatore: io mi pongo sul terreno di quest’ultimo)”. Per Gramsci non restava che “distruggere la presente forma di civiltà: distruggere gerarchie spirituali, pregiudizi, idoli, tradizioni irrigidite”. “Non spaventarsi della distruzione”. Rispetto umano e intellettuale per Gramsci ma non dimentichiamo che fu nemico della libertà, della civiltà e dell’identità culturale e civile italiana.

La Verità – 18 gennaio 2024

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  • L'ultimo libro di Marcello Veneziani

    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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