Quando finì l’era delle mutande bianche (III puntata)

Ma cosa fu, cosa lasciò il ’68 fuori dalla politica e dalle ideologie? Un paio di slip. Fu una rivoluzione di costume, nel senso letterale della parola: i jeans e la minigonna, i capelli lunghi e il vestiario trasandato o casual.

Ma quand’è che la vita perse la sua innocenza, vera o presunta, a che tempo risale e soprattutto in che modo avvenne la Grande Mutazione che passò per grande modernizzazione? Cento sono i segni, gli eventi, le svolte che sanciscono il passaggio dall’età del candore all’età della malizia, la caduta dei tabù e l’irruzione del sesso libero e diffuso. L’invenzione della minigonna con Mary Quant, la rivoluzione sessuale, il femminismo, la contestazione, il linguaggio fallico-vaginale, il petting, l’exploit della pornografia…

Ma c’è un piccolo, intimo simbolo che tocca ciascuno di noi, maschi e femmine: il mondo dell’ingenuità finì con l’epoca delle mutande bianche, caste e capienti. Quel connotato intimo e universale era il segno del candore mentale, fisico e morale, l’idea che quell’indumento servisse a preservare le parti intime, a coprire forse ipocritamente, come allora si diceva, le pudenda, e non a lanciare messaggi erotici o allusivi.

La malizia arrivò con le mutandine nere, succinte e traforate, sfiziose e un po’ viziose. Quelle delle donne, naturalmente, meglio se accompagnate dalle calze nere, dal pizzo e da altri accessori seduttivi. Ma anche quelle degli uomini formato boxer o anche slip passarono al genere tenebroso.

La mutanda bianca diventò di colpo ridicola, paesana, antiquata e asessuata, un handicap, una barriera architettonica, un pessimo biglietto da visita. Prevalse il nero, anche se continuò a chiamarsi biancheria. Le mutande non servirono più per uso interno ma per le relazioni esterne.

Mutande estroverse. A volte furono abolite, sotto la cerniera niente. Segno di emancipazione, per riti sessuali abbreviati, soprattutto nelle occupazioni studentesche fu la scomparsa delle mutande. Naturalmente, il passaggio d’indumenti non fu un vessillo di battaglia per i contestatori. Ben altri erano gli slogan, le passioni e le ambizioni smisurate di quel movimento.

Volevano cambiare il mondo, anche se poi finirono per cambiare la biancheria.

Diciamo che la rivoluzione di costume, quella intimo-sessuale, fu un effetto lungo anche se secondario di quella ribellione. Era la liberazione dai tabù, il sesso libero e ostentato, l’emancipazione giovanile e femminile, l’autogestione dell’utero, quelli erano i grandi temi. Ma il simbolo, il feticcio, fu la mutanda.

Col tempo variarono i colori, se ne cercarono altri ancora più intriganti o estrosi, tornarono in veste smaliziata e ridotta perfino le mutande bianche. Ma quelle che ricordiamo dell’infanzia, così puerili, avvolgenti e indifese, con la bisaccia al centro, candide anche se a volte non pulite, erano ancora le mutande di famiglia, spesso di famiglia numerosa.

Era il tempo in cui i panni sporchi si lavavano in famiglia, con tutto il corredo annesso di decoro e ipocrisia. Erano anche il tempo dei bambini del sud con le mutandine bianche per strada, al mare, oltre che in casa.

Al tempo delle mutande bianche il sesso era ancora coperto dal pudore e collegato alla procreazione. Naturalmente si faceva sesso per piacere, oltre che per amore, ma la finalità ultima restava generare, quantomeno la motivazione pubblica e morale, la destinazione d’uso e di scopo.

Le mutande erano indumenti innocui, domestici, sanitari; fuori da ogni velleità estetica, erotica o seduttiva. In certi casi erano la versione light della cintura di castità. Era tenera la vita, ingenua, fraterna e filiale, al tempo delle mutande bianche. Non conosceva lingerie né feticismi, le mutande ammiccanti riguardavano solo le donne di piacere o d’esibizione, tipo ballerine o sciantose.

Le mutande bianche non erano da esibire, semmai servivano a inibire. I mutandoni delle nonne, le lunghe brache dei nonni, le mutande grandi delle mamme, dei papà e delle signorine serie, le mutande con la guaina per foderare i genitali dei maschietti.

In quel tempo il nero era colore di vedovanza, solennità o sacerdozio, vigeva nei vestiti perché il lutto era pubblico e visibile mentre il sesso era intimo e recondito. Poi avvenne il contrario, la morte fu nascosta e si fece sfacciato l’eros. Il mero sparì dal lutto e vestì eros. Le mutande nere segnarono la svolta maliziosa e l’inversione tra la sfera intima e quella pubblica; o la reciproca allusione tra i due ambiti, fino al simbolismo feticista.

Finì così, con le mutande bianche, l’era ingenua del neorealismo intimo e puerile. Ma fu soprattutto la riduzione delle mutande a slip, a tanga, a perizoma tipo selvaggi, a filo interdentale, il segno della svolta. Nessuna nostalgia per quelle mutande larghe della salute che facevano pendant con la canottiera, la maglia intima e i pigiami larghi a strisce; solo tanta tenerezza.

Mutate mutandis e mutò il mondo(3-continua)

MV, Il Tempo 15 gennaio 2018

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    Marcello Veneziani

    Giornalista, scrittore, filosofo

    Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. E’ autore di vari saggi di filosofia, letteratura e cultura politica. Tra questi, Amor fati e Anima e corpo, Ritorno a Sud, I Vinti, Vivere non basta e Dio Patria e famiglia (editi da Mondadori), Comunitari o Liberal e Di Padre in Figlio- Elogio della Tradizione (Laterza); poi Lettera agli italiani, Alla luce del mito, Imperdonabili, Nostalgia degli dei, La Leggenda di Fiore, La Cappa e l’ultimo suo saggio Scontenti (Marsilio).
    Ha dedicato libri alla Rivoluzione conservatrice e alla cultura della destra, a Dante e Gentile. Ha diretto e fondato riviste settimanali, ha scritto per vari quotidiani, attualmente è editorialista de La Verità e di Panorama.

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